Google+ CEREBRO Lo Stanzone Rotondo: Era mio Padre: METAL GEAR SOLID3: Snake Eater

giovedì 18 settembre 2014

Era mio Padre: METAL GEAR SOLID3: Snake Eater

Piccola Prefazione: 
Con l'arrivo di METAL GEAR SOLID V: The Phantom Pain e la rivelazione da parte del suo creatore Hideo Kojima di una nuova location ( la giungla africana ) durante la prima giornata del Tokyo Game Show 2014, pare proprio di essere in parte tornati indietro nel tempo.
Ovviamente ( e fortunatamente ) non per quanto riguarda il livello tecnico del gioco, che anzi sembra essere veramente superlativo, ma piuttosto perché già dai primi istanti di quel video di gameplay riaffiorano alla memoria i colori, i suoni e le atmosfere che abbiamo vissuto ormai 10 anni fa quando per la prima volta ci lanciavamo, tramite salto H.A.L.O., in quel di Tselinoyarsk.



Torniamo allora nel 1964, al tempo in cui Naked Snake si è guadagnato il titolo di BIG BOSS, ovvero nel 2004, anno di uscita di Snake Eater, su PLAYSTATION 2.


Nel tempo dell'Assenza

Ancora vive in me una strana persistenza, alla fine del viaggio. A volte resta la memoria di un colore, un jingle ridondante, un certo particolare ambientale, suggestivo, di uno spazio virtuale. A volte sono scorci di un dungeon zeldiano, alcuni spiragli d’esterni della Silent Hill, la spazzatura riversa fra le strade d’una plumbea Coney Island in The Warriors, la febbre virale della Carcer City di Manhunt...
Ambienti digitali poligono-dipendenti/gameplay-contestuali che si intridono nella memoria, con una forza e una persistenza emotiva quasi innaturale.



Nel riemergere da Metal Gear Solid 3, nel ritornare alla luce dopo la verde risonanza aurica del quale il suo universo è cosparso, è stata per me come un’emozione risonante nella dorata filigrana del ricordo.
Un tepore intimo, interiore, corroborato da profonde ed emotive sinestesie sprigionate dalla memoria di un particolare universo passato, video-ludico e video-emozionale: l’universo della mia infanzia, da sempre operativa in me.
L’emozione di ricordare.
Verde è il fungo luminescente russo e la rana subaspera, la mimetica fogliare e l’acquitrino della palude. Verde è il pitone arboricolo, la raganella e il muschio sulla pelle di THE END. Verdi sono le mimetiche e l’uniforme standard dell’ex Green Beret John, i rettili in agguato sugli alberi e le radiotrasmittenti, le divise militari, l’uniforme di EVA, le passerelle antisdrucciolo cigolanti, la copertina e la serigrafia sul DVD…
Verde foglia, verde militare è METAL GEAR SOLID 3.

Verde come la memoria che ringiovanisce tornando indietro, all’universo parallelo aperto su MSX da Konami a metà degli anni 80, implementato in concetto e realizzazione sino a giungere qui, all’origine di tutto, retrospettiva che legittima e rende giustizia allo spazio bidimensionale ideato da Hideo Kojima attraverso il medium MSX, piattaforma sulla quale il game designer ha dato l’abbrivio all’assalto teso alla comunione mediatica fra cinema e videogame.
Tutta la volontà era lì, dentro un MSX2, ed ora è anche qui, dentro una PLAYSTATION 2: spazzare via un mucchio di pixel affastellati attraverso un proiettile dalla forma di un quadrato bianco, cosi come sgozzare un ammasso di milioni di poligoni vivi trattati in gourad shading - sentendoli urlare mentre il joypad è in vibrazione - osservando sangue schizzare sul vetro interno dello schermo…
Il concetto è il medesimo.
Lo scarto rimane prerogativa tecnologica, non delle idee.
Oltre il comparto grafico quindi, oltre la terza dimensione, dolby pro logic II e l’immersione sensoriale, il testo rimane eloquente: Metal Gear Solid è opera potente, riflessiva, buona per tracciare avanguardie videoludiche.
Ma è dentro SNAKE EATER che si vede la sostanza. E’ dentro SNAKE EATER che si annusa di cosa è davvero composto il DNA, la guerra, l’odore di terra e sangue e armamento pesante METAL GEAR – i tessuti delle uniformi mimetiche di soldati, elettricità ad alto voltaggio, sudore, pioggia, fango e ruggine.
SNAKE EATER dilata l’universo del proprio passato lasciando intuire che non vi è ironia al principio di ciò che si era conosciuto, nonostante le influenze di un cinema d’azione americano così influente su Kojima.
Per molti appassionati SNAKE EATER ha giocato con la memoria nostalgica riesumandone l’inconscio, con effetti filosoficamente ed emozionalmente intensi.

UNTIL THE END OF THE WORLD di Wim Wenders postula un head-set record-neuronale in grado di registrare il proprio inconscio, proiettando frames d’immagini nella corteccia cerebrale in modo da poter rivedere in low-fi persino i propri sogni passati. In altri termini, riesumare visivamente ciò che era “nascosto” nella propria memoria, e che le appartiene in quanto parte inconscia ed operativa di lei. Aspirazioni, pulsioni, desideri… Rivedere i sogni per ritornare a quello che un tempo si era, pensando a ciò che si sarebbe potuto essere.
Un processo che può far male.

SNAKE EATER rappresenta gli occhiali di Wenders. Permette di partecipare alla causa scatenante le future conseguenze che tutti i veri fan di MGS avevano già conosciuto. In me il processo è risultato intenso e avvolgente, a causa del risveglio di risonanze emotive che successivamente ai vari MGS, dopo aver sentito storie, vissuto sequestri di scienziati, METAL GEAR RAY, ARSENAL e PATRIOTS e reparti speciali e tutti gli intrecci ormai decantati nell'anima, hanno contribuito a proiettare, a confinare il mio spirito nel passato.
Una mirabile caratterizzazione visuale/storico/narrativa, contestuale al gameplay, non ha fatto altro che proiettarmi e guidarmi in un tempo particolare: si tratta del tempo dell’assenza, il tempo ancor prima che io nascessi.
L’aggiornamento tecnologico applicato ad un prodotto videoludico, nel tendere sempre più ad un grafico realismo, rende visibile ciò che in passato ha emozionato nel solo immaginarlo. Quella stessa intima emozione passata, decantata da anni nella memoria, viene riformulata e attualizzata al presente, portando con sé un carico di estraniante nostalgia.
L’emozione di chi viveva 20 anni fa l’esperienza Metal Gear su di un MSX, di chi viveva il coinvolgimento ideato da Hideo Kojima nella caratterizzazione dei personaggi e nei loro rapporti, dalle emozioni esperite in-game all’immaginare la personalità di Big Boss, di Solid Snake e di Grey Fox…
Tralasciando gli stereotipi degli action-film/spy-story americani ai quali il Director Kojima si dichiara versato, i personaggi di Metal Gear hanno da sempre tentato di uscire dal limbo del mero messaggio ludo inteso in un momento nel quale le cover delle confezioni di videogames possedevano ancora il carattere di illustrare simbolicamente i contenuti dell’esperienza, di suggerire l’atmosfera e il richiamo ad un particolare immaginario, nonché il compito di farsi latrici nel favorire l’immaginazione di “pensare” il giocato, di “fantasticarne” il realismo ove la cosmesi prodotta dalla tecnologia hardware era lontana dal rappresentarlo.

Le cose oggi si sono rovesciate. L’aspetto grafico di un videogioco è più esteticamente coinvolgente dell’immaginario suggerito dalla cover art che lo accompagna.
Ciò che compie Snake Eater, il modo in cui lo compie, è poi qualcosa di unico. L’aggiornamento tecnologico ha il potere di richiamare l’emozione del passato: ciò che si è stati, ciò che si è vissuto, ciò che si è esperito, ciò che si è virtualmente immaginato in passato, è stato rievocato attraverso gli elementi un tempo investiti affettivamente.
Vedere il nemico che era Big Boss...
Vedere attraverso Big Boss l’eroe Solid Snake...
Espandere l’immaginazione al passato, tornare sui passi dell’immaginazione decantata negli anni addietro, lasciata lì, in una qualche zona anteriore della mente, una zona che sarebbe dovuta restare circoscritta nel tempo, e invece riprenderla, scuoterla, riattivarla provando l’anacronistico sapore di un tempo (da ieri ad oggi) che per Konami non dovrebbe essere trascorso mai.
20 anni, invece. Dal primo Metal Gear sono sono trascorsi 20 anni.

La verità è che il progresso tecnologico videoludico ha il potere di re-immergere l’anima nel ricordo, ristrutturando l’emozione e infischiandosene del tempo trascorso: è così che la tecnologia soprassiede sul tempo, quando ciò che non è stato permesso un tempo può essere riformulato all'utente oggi, costringendo il videogiocatore a rimembrare, riformulare a sua vota la propria avatar-immersione, l’emozione registrata nella propria memoria videoludica.
Se è vero che “La narrazione non opera nel segno della riproducibilità del passato, ma del valore/significato che l’evento richiamato assume ora che lo stiamo raccontando” (Gianfranco Pecchinenda – Videogiochi e Cultura della simulazione) – giocare Snake Eater oggi ha un valore in più per chi lo ha affrontato nel proprio passato B-dimensionale, in quanto viene amplificato il rapporto emotivo di identità avanzato dal videogiocatore, da ieri ad oggi.


Vivere nel tempo dell’assenza


Filosoficamente Snake Eater compie poi un altro azzardo, ossia quello di offrire la possibilità di vivere il tempo della nostra assenza, vale a dire ciò che altrimenti non si sarebbe potuto sostanziare mai se non come leggenda.
Pur essendo frutto di fanta-politica, MGS3 offre difatti la possibilità di vivere una storia nel tempo storico in cui non si era ancora vivi, perlomeno del videogiocatore al di sotto dei 40, offrendo il privilegio di scriverne il modo come sarà registrata in noi e come sarà ricordata dalle generazioni future. Ovvio che per il videogiocatore che ha terminato Snake Eater, rigiocando adesso Metal Gear Solid 1 e udendo il nome di Big Boss potrà pensare “Io so tutto. So come è davvero andata“.
Ma la verità è che avrebbe potuto non saperlo mai.
Ciò che sconvolge è quindi l’espansione fenomenica del passato, come se Snake Eater avesse operato una dilatazione storica della memoria, riscrivendola, permettendo al videogiocatore di ri-scrivere il modo con il quale ha avuto corso.
Nessun prequel, videoludico o cinematografico, ha mai sortito questo effetto in me prima d’ora.
Ed è questa la pura potenza del videogioco: donare l’impressione di essere un continuum temporale endogeno, virtuale ma parallelo e legittimo quanto l'ordinaria "realtà". L'in più risulta proprio la possibilità di sentire d'esser stati noi a delinearne i confini, dispiegandone il relativo universo sino alle battute finali. Il gioco si registra così nella memoria intima del giocatore, dentro il suo Tempo, affinché il prequel Snake Eater ne divenga una espansione empirica.

Ma la storia rimane fatto, e la storia di Snake Eater non è negoziabile: il tentativo di riscriverla genera un Time Paradox che prelude al Game Over, interrompendo in tal modo il proseguimento videoludico. Ma non si tratta di una vera e propria fine. L’assenza di Game Over di Snake Eater testimonia il suo irrevocabile determinismo. Si tratta di un universo digitale autonomo, le cui linee generali prologo-epilogo erano state diegeticamente scritte già vent’anni fa, a prescindere dalle azioni del videogiocatore. Pertanto l’esperienza videoludica che Konami offre al gioco è un privilegio tempo-trascendente. Nel tempo narrativo di Snake Eater il giocatore rappresenta quindi un non-nato che sta muovendo i fili dello svolgimento storico di fatti pre-determinati.
Una spia dal compito già stabilito.

A pag. 11 della Guida Ufficiale Italiana (Piggyback Interactive 2005) è scritto : Poiché MGS3 si svolge nel passato, prima degli eventi che hanno animato i precedenti capitoli di Metal Gear, è certo che Snake sia sopravvissuto alla missione, altrimenti il mondo di oggi non potrebbe esistere. Il tuo compito è quello di ricreare gli eventi che sono di fatto già accaduti.

SNAKE EATER sa quindi donare la sensazione d’essere l’assenza spazio/temporale del nostro corpo negli anni ’60. Similmente ad un fantasma agognante un corpo, agognando Tempo e desideroso di sostanziare, sentire, annoverare fa i suoi non-sensi gli oggetti fisici e reali del mondo, similmente ad un fantasma che si farebbe pieno di gratitudine verso quelle forze trascendenti che gli hanno temporaneamente permesso di sostanziare vita, di incarnarsi nella vita trascorsa di qualcuno, dentro SNAKE EATER il giocatore può assaporare con devozione e gratitudine un’opera che è parte di una vita videoludica che avrebbe
potuto
non
vivere
mai.
Il privilegio di poter essere presenti all’origine, di potersi fare registratori di un’esperienza del Tempo della propria Assenza, nonostante alla fine venga registrato quanto nella storia è già accaduto, nonostante la coscienza che tutto è comunque già stato vissuto, la cura con la quale Konami ci ha regalato questa magnifica possibilità esprime un valore impagabile.
Ogni singolo accadimento sensoriale, ogni suono, colore, parola in Snake Eater divengono addizione d’una vita passata alla vita presente di noi videogiocatori, un vero e proprio "incremento temporale virtuale": il gracchio metallico di barili rugginosi fra travi ossidate nel centro di ricerca a Tselinoyarsk, la tecnologia di sonar a batterie, interferenze magnetiche, terra che s’imbeve di sudore e sangue, senso di piccolezza nel sentirsi inghiottiti in madre natura amorevole e spietata, uno spiraglio accecante di sole, pioggia, animali, schegge schizzate nella carne e terra imbevuta del siero di corpi umani – ogni particolare esperibile in Snake Eater è il dono trascendente che Kojima e Konami, mediante tecnologia PlayStation2, hanno fatto alla nostra memoria, a noi veri appassionati della saga Metal Gear.

Persistenza della Natura

Del mondo infine è la natura a restare. La natura dal volto mai trapassato, dai colori e dalle sfumature che sanno come ritornare. In Snake Eater le armi si faranno obsolete, cosi come invecchieranno e si spegneranno corpi, mentre porzioni di foreste bruceranno diventando radioattive, e tutti nomi del registro dei Vivi saranno cancellati.
Ma il sole continuerà a cadere sul mondo, riversandosi negli spazi intrisi d’invisibili ricordi di cose avvenute, dando luogo a quel senso di nostalgia con il quale si combatte dentro la Russia di MGS3. Penso a quel sole filtrato dalle fronde d’alberi secolari nelle foreste di Tselynoyark, quella stessa pioggia che lava via sangue e animali morti del bosco, e il verde delle foreste, la frescura dei ruscelli… penso alla pienezza di sensazioni con la quale Snake Eater investe ogni momento di gioco, grazie alla fantastica storia e all’anima digitale dei personaggi i quali, investiti da questo nostro sentimento umano, rendono vivi, umani, memorabili i poligoni.
L’umanità delle storie di Metal Gear trascende il mero dato poligonale per intridersi nella nostra memoria videoludica. Che la natura dentro l’universo di MGS3 sia mero poligono digitale è dettaglio inutile: trascesa dall’umanità dei personaggi e dall’intensità delle storie, essa resterà e vincerà sull’uomo e sopra il suo Tempo, ed è probabilmente questo ad emozionare la memoria, nel riviverla: in Natura non esistono ’60 ’70 o ’90, non esistono età bensì solo il modo come l’uomo la vive, scrivendovi la propria storia all'interno.
E' così che ogni filo d'erba, raggio di sole, albero e corteccia e filo spinato si trasformano in entità atemporali: vivere il loro respiro al passato rende l’esperienza un qualcosa di trasmigrante. Acquattarsi tra le fronde di un sottobosco in SNAKE EATER vuol dire acquattarsi fra piante che oggi presenterebbero le stesse forme, colori e odore. Ed è proprio questo che fa male nel giocare ad essere la memoria: rivivere negli spazi della natura morente e in rinascita, vedendovi agire dentro uomini che hanno creato l’intensità di una storia umana (per quanto fittizia), ma che un giorno non saranno più.

Snake Eater non è il METAL GEAR della tecnologia, delle porte ad apertura fotocellulare, della manipolazione genetica e delle nanomacchine che agiscono nell’apparato endovenoso. Non è il Metal Gear dei campi magnetici che proteggono da missili e proiettili o delle fantomatiche braccia di Lazzaro che trapiantate in altri corpi permettono di risuscitarlo in vita.
SNAKE EATER è guerra vissuta fra soldati mortali, l’inflessibilità d’un semplice uomo del reparto FOX, un uomo di poche parole, esperto di tattiche, armi e tutto ciò che è militare, cane da guerra con zero velleità artistiche.
Egli non è il nostro Solid Snake, e lo si avverte non appena se ne viene a contatto. John è un animale da terra e palude, fango e pioggia, carne cruda e battaglia e metallo e adrenalina e coraggio e riflessi e volpe e serpente, il Vero Serpente, un vero Naked Snake.
La fiducia riposta dal governo è ovvia e naturale, poiché il senza-famiglia John è un universo autonomo, serio, responsabile verso il proprio Paese, responsabile come un padre che abbia qualcuno da sfamare.
Nonostante il proprio lavoro possa consistere nell’uccidere, sgozzare e strozzare a mani nude per poi cestinare la coscienza con la certezza d’aver fatto il proprio dovere, la verità é che John si chiede poco o nulla: di cosa pensi della guerra, di come ami, di come imparerà ad odiare. Il nocciolo più intimo, il mistero dietro l’uomo John non si riesce ad intuirlo nemmeno immergendosi in lui.
Come se a quel tempo, nella freddezza e nella crudezza di ciò a cui si può assistere attraverso lui, non vi fosse alcun bisogno di quel moralismo anti-militare che viene fuori dalle coscienze dei vari MGS degli anni ’90: nessuna crisi spirituale, nessuna morale anti-bellica, semplicemente missione come professione, missione come ideale di fedeltà a servizio del proprio Paese: una guerra fredda dell’uomo per un soldato freddo interiormente.
Al contrario di altri Metal Gear, John non può e non vuole chiedersi se ciò che sta vivendo sia realtà o finzione. Egli non accusa il minimo cenno di metareferenzialità per l’universo che lo controlla. La Natura è lì, soverchiante, splendente, reale. Egli è l’uomo si nutre della natura, fagocitando serpenti, procedendo col proprio trasmettitore schizzato del sangue d’un operativo del KGB sgozzato, imbrattandosene il corpo se può aiutarlo a mimetizzarsi meglio.
Ed è con tali suggestioni che l’universo Snake Eater si fa più aderente al nostro sentire umano, in quanto spazio antitetico del digitale, similmente al mondo negli anni ’60 assente di effetti Compton, GW e la minaccia di censura d’informazioni da parte dei PATRIOTS.
No Skull Suit a trattamento endovenoso in Snake Eater: John non ne ha bisogno, si medica da solo, e da solo procede, senza ironia, responsabilmente verso la propria missione e il proprio destino.
E’ questo che lo rende un soldato perfetto.
E’ per questo che lo sarebbe stato come padre.

Perché il padre è il ritorno all’indagine delle proprie radici, attuata ogni qualvolta la memoria scava all’indietro. Tale è la funzione archetipica e psicologica del padre: il legame con la memoria, radicata nel profondo, in grado di legare un figlio alla radice del presente. Una questione di sangue.
Nella giovinezza del padre e nel suo Tempo, esistiamo anche noi, i non nati.
Ma già vivi nel suo DNA.
Un legame della Natura che non si potrà più cancellare.
Mai.



Luigi "BraunLuis" Marrone

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